Al giorno d’oggi è importante essere consapevoli ed informati delle caratteristiche, non solo nutritive dei cibi che regolarmente ingeriamo, ma anche e soprattutto, della loro qualità. Questa è il risultato della provenienza del cibo, del metodo di coltivazione, quello di lavorazione (processo industriale e inserimento di sostanze chimiche al suo interno). Fra le persone in Italia più competenti su questo argomento c’è Monia Caramma, ricercatrice e divulgatrice di alimentazione consapevole. Monia è anche autrice di alcuni libri ed è Vicepresidente di Sorghum United, organizzazione internazionale dedicata allo sviluppo della coltivazione etica e responsabile del sorgo. È formatrice in ambito nazionale ed internazionale ed è anche stata inserita da Forbes nella classifica delle cento donne più influenti in Italia.
1. Monia, chi meglio di te può parlarci della consapevolezza alimentare? Secondo te nella vita quotidiana le persone hanno una base educativa di come nutrirsi per un’alimentazione corretta?
Cominciamo con il dire che nutrizione e alimentazione non sono sinonimi. La nutrizione si concentra sui nutrienti; l’alimentazione invece considera il cibo nel suo complesso, compresi gli aspetti chimici e di lavorazione, ma anche la qualità e la provenienza geografica. Un primo esempio? La curcuma può essere contaminata da ossido di etilene, rendendo inutile il suo valore nutrizionale. Quindi, rispondendo alla tua domanda, in teoria sì: sono molte le persone che leggono le etichette nutrizionali e sanno quali proteine e nutrienti sono importanti. Tuttavia, questo non si traduce necessariamente in una consapevolezza alimentare. Il cibo non è solo una somma di nutrienti, ma comprende anche la qualità degli ingredienti e i processi di lavorazione.
2. Facciamo un passo indietro. Non sempre il consumatore ha gli strumenti per conoscere, a volte non ha il tempo o i canali giusti per informarsi. Tu come hai acquisito questa consapevolezza?
Tutto è iniziato quando ho scoperto di avere il morbo di Crohn e nessun medico riusciva a fornirmi una diagnosi chiara, finché un medico farmacista mi ha aiutata proprio con l’alimentazione. Ho seguito una dieta rigorosa per un anno e mezzo, senza sgarri, e ho avuto una remissione completa della malattia. Ho poi iniziato ad acquistare dai cosiddetti agricoltori “eretici” i quali, in un certo senso, non seguono le regole del mercato. Questo mi ha fatto capire l’importanza di un’alimentazione consapevole e priva di additivi chimici. Data la mia esperienza, credo che molte malattie derivino dalla nostra alimentazione. La sensibilità chimica multipla, ad esempio, è una condizione di cui si parla poco ma che colpisce molte persone.
3. I luoghi comuni sull’alimentazione (come quelli relativi ai benefici derivanti dal consumo di carne o dei latticini) si sono diffusi solo per interessi delle industrie secondo te? Come possiamo mettere da parte alcune false credenze?
I luoghi comuni si sono diffusi essenzialmente per due motivi. Uno relativo alla “tradizione e cultura” del contesto nel quale si vive e l’altro relativo alla “mamma azienda”. Mi spiego meglio, da sempre la carne e i cibi più bianchi, come il pane bianco, sono stati consumati dai ricchi e dalla nobiltà, invece le verdure e i cibi scuri, come ad esempio il grano arso e cereali non raffinati venivano consumati principalmente dalle fasce povere della popolazione. Proveniamo quindi da un contesto culturale che ha sempre fatto leva sul consumo alimentare rivolto ai ricchi, perché si è sempre pensato che se avessero potuto permetterselo i ricchi allora quel cibo era “migliore”. Di fatto non è così. Poi l’industria alimentare ha ulteriormente influito su questo processo, perché riesce a sostenere costi molto inferiori se processa determinati cibi per renderli raffinati. È per questo che si sono diffusi i grani “standardizzati” rispetto a quelli antichi, che hanno invece una resa naturale minore e si adattano meno a tutti i tipi di ambiente.
4. Quanto potere abbiamo noi consumatori, nell’influenzare la produzione aziendale e chiedere alimenti sani?
Noi consumatori abbiamo un potere enorme! Possiamo influenzare anche individualmente l’offerta aziendale. Ad esempio, possiamo farlo direttamente scrivendo una e-mail al giorno all’azienda X chiedendo più trasparenza o denunciando l’immissione sul mercato prodotti non idonei. Oppure scegliendo un prodotto piuttosto che un altro, influenzando le scelte di produzione di alcune aziende, spingendole a puntare su prodotti che vengono preferiti dai clienti. E poi possiamo sempre cambiare il modo con cui ci approvvigioniamo dei nostri cibi: andiamo dagli agricoltori di cui ci fidiamo, andiamo dai panifici, andiamo da chi è più piccolo e, con maggiore probabilità, più lontani dalle logiche di mercato e del consumo di massa.
5. Stanno spopolando alcune applicazioni che il consumatore può scaricare sul proprio smartphone. Mi viene in mente l’app Yuka. Possono tornarci utili nella scelta del prodotto che si trova sullo scaffale del supermercato?
L’aspetto di Yuka che più considero positivo è che si basa sul Nutri-Score francese, strumento elementare ma di grande importanza perché orienta il consumatore nella scelta dell’alimento. Gli aspetti negativi sono: Yuka non racconta nulla sulla provenienza del prodotto e quindi non sappiamo se è il cibo deriva da una zona Extra UE, dove spesso non ci sono tutele per la nostra salute. Inoltre, nel punteggio totale dell’alimento il peso della componente chimica è bassissimo e, anche se segnalata, non è sempre indicata la vera distinzione fra un additivo ed un altro. Mi spiego: se viene segnalato in un prodotto cosmetico, il biossido di titanio verrà descritto come conservante, ma non è detto che sia segnalato anche come potenzialmente genotossico, cosa che effettivamente è. Ma ancora, da Yuka non sappiamo se i mono-gliceridi degli acidi grassi sono di derivazione animale o vegetale. Idem se c’è la presenza di pancreasi, un enzima estratto dal pancreas suino. Questo non sarà segnalato né da Yuka, né tanto meno dall’etichetta. Ti lascio immaginare quanto la dieta considerata vegetariana o vegana nella realtà sia molto, molto difficile da rispettare…
6. Tra gli obiettivi di una dieta vegana c’è anche il minor impatto ambientale. Comincia fortunatamente a diffondersi il peso negativo degli allevamenti intensivi sull’ambiente. Ma di quanti altri impatti ambientali ci stiamo dimenticando?
Di moltissimi altri! Te ne riepilogo alcuni: i terreni ormai adibiti solo a coltivazioni industriali sono poco fertili e dunque hanno sempre di più la necessità di essere arricchiti artificialmente, il che non è un bene. Poi le erbacce vengono eliminate a suon di agrofarmaci, spesso ricchi di nichel e metalli pesanti che inquinano enormemente. Se parliamo delle serre, in Italia ma soprattutto in Spagna, c’è un utilizzo della risorsa idrica spropositata e si usano anche i cosiddetti concimi foliari che vengono somministrati per far sviluppare più velocemente la pianta. Non dimentichiamoci che, sempre nelle serre, c’è un problema di emergenza sociale: il caporalato. E non solo nelle serre, anche nel settore della raccolta degli avocado nei paesi latinoamericani, commercio controllato dai Narcos.
7. Quanto l’inquinamento idrico, atmosferico, terrestre inficia sulla produzione dei nostri alimenti?
Si tratta di un ciclo che si ripete continuamente. L’industria inquina la natura? Bene, vorrà dire che le piogge acide, i particolati, altri inquinanti, contamineranno la natura. Non si ferma questo ciclo finché non saranno più immessi componenti chimici di grande impatto nell’atmosfera e nelle falde acquifere. Questo le persone devono saperlo.
8. La consapevolezza sembra proprio essere il primo elemento da considerare. Quali sforzi metti in campo per educare le persone alla scelta alimentare consapevole a tutto tondo?
Ho scritto 3 libri e tanti articoli con l’unico scopo di divulgare il mio sapere, frutto di tantissimi anni di ricerca e di raccolta di più fonti. Metto a disposizione tanti video e ho una community in un gruppo Facebook che è molto recettiva ed interagisce in modo costruttivo, per la ricerca della verità alimentare. Poi sono stati organizzati alcuni corsi online sulla cosiddetta “alfabetizzazione alimentare” per promuovere la conoscenza degli ingredienti e per aiutare la lettura consapevole delle etichette. Infine, divulgo le mie conoscenze in vari eventi e conferenze sia online che presenziali. Il mio obiettivo non è sempre quello di dare risposte, ma anche e soprattutto di gettare il seme della riflessione critica, con il fine di aiutare le persone ad orientarsi nella scelta del consumo alimentare consapevole.